Miyar 2004
“Eccoli!”, grido ai miei compagni, mentre vedo sbucare il primo bidone azzurro, lentamente trasportato dal nastro dei bagagli dell’aereoporto di Delhi. Finalmente sono arrivati, dopo tre terribili giorni di attesa, dopo tre giorni di telefonate disperate ad amici e mogli, alla ricerca dei nostri bagagli, pieni del prezioso materiale per la spedizione.

Dopo le lunghissime procedure della burocraticissima India, usciamo dal terminal e finalmente partiamo per Manali, sono passate da poco le 24, ma siamo svegli e felici.

Con 16 ore di scombussolamenti, rischi mortali di frontali con tir, una foratura alle 2 di notte e incubi notturni (credevo di aver sentito scoppiare un bidone), arriviamo a Manali, la nostra avventura è iniziata.

Sono mesi che non piove, tutto e secco ed il governo non sa che provvedimenti prendere per la siccità, il monsone non ne vuole sapere di arrivare… ma ora siamo arrivati noi, monsone o no, attacca a piovere a dirotto e continua per tutta la notte.
La mattina, la strada per la Miyar Valley è franata in molti punti, portandosi appresso camion con chi li guidava. Siamo disperati, ma mi rendo conto che mi angustio per l’eventuale insuccesso di una scalata, mentre qui c’è gente che ha perso tutto, compresa la vita e la vita, in un paese come l’India, vale davvero poco, ma non meno di una spedizione alpinistica.

Tenzin arruola 13 portatori e carichiamo tutto, ci faremo la strada a piedi!

Finalmente a Udaipur, da li arriviamo alla nostra valle, ci accampiamo e… ricomincia a piovere!

Tenzin, preso dalla sua nuova mansione di imprenditore turistico, guida, intrattenitore, cuoco e giullare, fa la bella pensata di dimenticare il suo zaino, con tutti i soldi, sulla jeep appena ripartita. Di corsa prende un autobus e la rincorre, lasciandoci orfani della sua insostituibile compagnia.

Piove per tutto il trekking, camminiamo tutti incelofanati nelle mantelline, persi nelle nubi basse, in compagnia di Gopal, detto Lama, per i suoi trascorsi di bonzo, l’altro Tenzin, giovane cavallaro ed un paio di ragazzi come portatori. Sono tutti nepalesi, scesi per lavori stagionali, nessuno conosce la valle; ma io ci sono stato, io la conosco.
Preso dalla presunzione di sapere dove stiamo andando, mi incazzo perché ho la “certezza” che siamo fuori strada… ma, logicamente, ho torto ed ancora adesso ricordo la presa in giro che ho dovuto subire al ritorno, da Tenzin.

Campo base, quota 4000: il tempo è grigio ed in alto è nevicato abbondantemente, la paura di finire come l’anno passato, chiuso in tenda ad aspettare un miglioramento, mi opprime. Decidiamo di tentare la montagna che domina il campo, un po più bassa e con una bella parete di granito, il nostro obiettivo è rimandato di qualche giorno.
La sera si cena tutti assieme, poi Tenzin attacca a scherzare, si ride in compagnia; questa combriccola “indonepalesitaliana” si diverte.
La notte, in tenda, faccio fatica a dormire, il mal di testa non perdona e so che ne avrò per almeno dieci giorni. Mentre aspetto che il “triptano” faccia effetto, penso a quello che mi sono lasciato dietro, a casa, alla mia vigna ed a tutti quei lavori che ho scaricato ad altri.

Attrezziamo il campo avanzato, Pietro sale con insolita lentezza, appena arriva dice calmo:”Ragazzi, la mia scalata finisce qui, devo essermi rotto una vertebra!”
Non riesce a muoversi per il dolore, il terribile viaggio in fuoristrada deve essere stato fatale per una sua vecchia ferita.
Resta seduto su una pietra, mentre io e Mimmo ci prepariamo per attaccare la via. E’ deciso, la parete del nostro progetto resterà un sogno, senza Pietro non è possibile andare, ora il nostro obiettivo è questa montagna!

Sono pronto, ho l’imbrago e tutto il resto, mi avvicino a Pietro, che calmo ci osserva e lo abbraccio; tutti e due scoppiamo in pianto.
So cosa significa per lui, sento il suo sconforto, aveva un motivo speciale per questa salita.

Io e Mimmo scaliamo, la via procede veloce, la roccia è bella e le difficoltà relativamente contenute, forse troppo. Arriviamo al cengione che divide in due la grande parete della montagna e decidiamo che possiamo scendere, la linea è bella, ma vogliamo farne una più diretta, questa resterà come via a se stante.

Ci caliamo e mi ritrovo a pensare a Patrizia, che ora sarà al lavoro. Lei che mi permette di vivere queste avventure, lei che si carica delle mie responsabilità e resta a casa, tra il lavoro, Giuliana che fa i capricci e l’ansia per un marito strampalato, che rischia l’osso del collo in montagna. Cosa faccio qui, perché approfitto così spudoratamente della mia compagna? L’alpinismo è un’attività da egoisti, più se ne fa, più egoisti si diventa!

Siamo gasati, la parete permette una progressione veloce, ce la possiamo fare in giornata, ma ci tocca aspettare, la pioggia ha ripreso. Stretti stretti, nella tendina del campo avanzato, aspettiamo un po di cielo azzurro.

Aspettiamo e la tenda si gonfia e sgonfia. Non è il vento, o meglio, è uno vento interno, intestinale, profondo e spesso, un vento che lascia storditi e che costringe a mettere fuori la testa. Chi sarà, chi non sarà, la tenda la soprannomino “prot-hause” e pensare che non abbiamo portato scatole di fagioli con noi!

Il cielo è stellato, è ancora notte e già siamo in azione.
Attacchiamo sotto la verticale della vetta, dove siamo scesi in doppia, per una bella linea di fessure e placche monolitiche.
Saliamo rapidi, le difficoltà sono superiori all’altra volta, ma la roccia ci permette di progredire veloci. Arriviamo al cengione e proseguiamo, speriamo che il tempo tenga e decidiamo di lasciare un po di materiale ad una sosta, confidando che, alleggerendoci, potremmo essere più veloci.
Dopo un faticosissimo tratto di conserva, su rocce instabili ma facili, approcciamo la parete finale.
Il tempo passa, il cielo è ora coperto e la mia determinazione non fa accende la spia di allarme.
Mi ricordo di guardare l’ora, sono le 18 e sta iniziando a nevischiare, non sappiamo quanto manca alla cima, decidiamo che è meglio scendere.
Mentre comincia a cadere copiosamente neve bagnata, facciamo le doppie. Come logico, una si incastra e la devo risalire tutta, strizzando con i prusik la corda zuppa di acqua, che mi scende lungo le braccia, fino alle ascelle. Ora sono anche bagnato; si fa buio.
Abbiamo una sola frontale e a tentoni cerchiamo di ritrovare i nostri passi. Alle 21 siamo persi, senza nulla per proteggerci, senza la radio per comunicare con Pietro, senza cibo ne acqua, decidiamo di fermarci su una cengetta e passare la notte.
Da sotto vedo una luce, e’ Pietro che ci fa segni con la frontale, rispondo lampeggiando; almeno sa che siamo vivi.
Mettiamo le corde bagnate sulla roccia e ci sediamo sopra, apro lo zaino e ci copriamo le gambe, è bagnato anch’esso; dividiamo in due l’unica barretta rimasta e ci strigiamo l’uno all’altro.
Ho freddo e sono bagnato, non so come sarò domani, cerco di non pensare alla possibilità di una notte sotto zero.
“Che quota?”, chiedo a Mimmo.
“Cinquemila e rotti”, mi risponde!

Giuliana dove sarà, in Italia saranno le 19 e dovrebbe essere a casa con Patrizia, a cercare di ripassare italiano o matematica. Non può riprendere la scuola senza un ripasso, lo studio non è certo una sua passione.
Giuggi, così discola e così dolce, una gattina che graffia e fa le fusa, ribelle e amorevole, la nostra disperazione e felicità. Cosa farebbe se mi accadesse qualcosa, lei che ha così sofferto, non potrebbe superare un altro trauma, come la perdita di una delle sue uniche due certezze: papà e mamma. Possibile che sarei capace di rovinare la sua fragile esistenza. Mi stringo a me e passo la notte a rimuginare sulla mia presunzione. Questo non è il mio posto, il mio posto è casa, con le mie responsabilità. Da ipocrita mi riprometto che questa è l’ultima spedizione, che d’ora in poi sarò finalmente un padre serio, ma so che bleffo, la montagna mi ha preso nel profondo, sono prigioniero!

La luce dell’alba è ancora lontana, ma siamo vivi, intirizziti e doloranti, la notte sta per finire ed è inutile restare fermi. Ci mettiamo in movimento e scendiamo al primo chiarore.
Dopo pochi metri riconosco il posto: “E’ li, la sotto c’è la sosta con la nostra attrezzatura”. Eravamo a soli cinquanta metri, che cretini e sfigati!

“Pietro mi senti?”. Chissà se ha la radio accesa?
“Eccomi, brutti disgraziati, ho passato una notte di ansia, che vi è accaduto?”. Pietro era pronto con la radio accesa, preoccupato come un fratello.

Scendiamo al campo base, dobbiamo riposarci ed aspettare che il tempo migliori.

Con il satellitare comunico con Patrizia, mi guardo bene da raccontargli la nostra avventura. Parlo anche con Riccardo, che è ormai il nostro collegamento con il forum, dove amici conosciuti o mai visti, attendono le nostre notizie.
Il forum è un bar virtuale, un posto che non c’è, ma che riunisce un sacco di persone accomunate da una passione: la montagna nelle sue più diverse espressioni. Quante ore perdo e perderò per connettermi con loro, quante parole scritte su un video e quanti amici scoperti via internet.

Il cielo è sempre coperto e piove spesso, ma noi saliamo lo stesso a “Prot-hause”, attenderemo con pazienza la giornata giusta.

Dopo una notte di pioggia, l’ennesima, uno squarcio si apre tra le nuvole, Mimmo ne approfitta per salire sulle fisse che abbiamo lasciato durante la discesa, cerca un posto per un bivacco. Al suo ritorno si decide di salire e bivaccare, il tempo sembra buono.
Nel tardo pomeriggio siamo al cengione, a sistemare il nostro bivacco: una nicchia appena accennata, con uno spiazzo esiguo ma abbastanza piano, in due ci si entra.
Nel sacco a pelo guardo le stelle, sotto di noi la valle con il campo, lontano migliaia di chilometri, la mia vita di tutti i giorni, gli impegni e gli svaghi. Non esiste solo la famiglia, il lavoro, la montagna, il forum, io ho anche la “piccola”, la mia auto. E’ l’ Elisetta, un’auto che mi da il piacere assoluto della guida, su strada e su pista, un piccolo gioiello rosso che ho lasciato sotto un telo. Un mese senza l’Elisetta, un mese senza tirare le marce, senza il musicale rombo del suo scarico, senza lo sportivo risucchio dell’aspirazione, senza impugnare il volantino pieno di pulsanti e lucette… che coatto che sono!

All’alba si parte, saliamo il tratto di roccette ed attacchiamo la parete terminale, c’è il sole ed abbiamo tutta la giornata a disposizione. Supero il punto della ritirata dell’altro giorno, vedo la cima, o almeno quella che credo sia la cima.
Ultimo tiro, dove passo? Mimmo mi indica la bella paretina a sinistra, verticale e fessurata, mi lascio convincere e mi ritrovo a combattere con il tiro chiave della via.
Sono fuori, pochi metri di facile scalata e siamo in vetta, sono le 12 di venerdì 13, dopo una via di circa 1500 metri, in cima ad una montagna mai scalata.
Tiro fuori la bandiera della pace, che sventolo alla faccia dei nazionalismi e delle ricche spedizioni. Con me ho anche un’altra bandiera, decisamente più schierata e sventolo la canotta rossa, tagliata e disegnata con una bella falce e martello.
Forse qualcuno non sarà d’accordo, ma le idee restano con noi anche in cima ad una montagna ed io non me ne vergogno. In fin dei conti, non ci sono tante madonnine o crocifissi, in cima alle nostre vette? Una bandiera rossa non sarà religiosa, ma resta una “fede”, anche se laica.
Mimmo ha dimenticato di tarare l’altimetro, segna 5400, ma non sapremo mai la quota precisa; chissenefrega, non sono i numeri che contano, conta il piacere di essere stati capaci.
La vista e da sballo, montagne bellissime ci fanno da cornice, ma una su tutte si impone: è lei, la vetta che non scalerò mai, la parete dei miei sogni. La vedo svettare su tutte le altre, bella e beffarda, in perfette condizioni ed ho la netta sensazione di essere nel posto sbagliato!

E’ fatta, al campo base fanno festa, Pietro ci fa i complimenti via radio, ma io non sento particolari emozioni. Mimmo mi rimprovera freddezza, ma sono così; la vetta è solo un passaggio, un punto da cui puoi solo scendere, uno dei passi che fai nella vita, fatta di saliscendi. E noi scendiamo, torniamo al campo, dove Tenzin ci accoglie con una cena succulenta, tipica indiana, esagerata come il suo esuberante carattere.

La nostra montagna avrà un nome, si chiamerà Iris Peak, a ricordo della compagna di Pietro, scomparsa pochi mesi fa e la via che porta alla sua cima sarà dedicata ad Ezio, amico/compagno di tante avventure, che mi ha lasciato senza preavviso un anno fa, in un banale incidente automobilistico.
Ezio è stato per me più di un compagno di scalata, insieme abbiamo dormito sulle pareti del Gran Sasso, visto l’alba dal “Nido del Sole”, percorso le infinite rocce pericolanti del monte Camicia, sognato e progettato le più belle salite che ho fatto.
Ezio era come me, quando guardava una parete, vedeva una linea di salita da scoprire, una nuova avventura.
Grazie Ezio di essermi stato vicino, di aver condiviso il poco spazio di una cengia, l’acqua della borraccia, l’ultimo pezzo di pane, il peso dello zaino.

Nei giorni seguenti, tra una pioggia ed un’altra, salirò altre due vie nuove, ambedue su una cima nuova, un po più bassa dell’Iris Peak. Una in solitaria ed un'altra in compagnia di Mimmo e due graziose e fortissime francesi, Aurelie e Margot, sopraggiunte nel frattempo.
Pietro darà sfogo alla sua indole “buonsamaritanese”, soccorrendo una trekker olandese, seriamente infortunata.
Sempre Pietro, organizzerà una gara di boulder sui bei massi intorno al campo, il primo trittico india-francia-italia, dove Tenzin e Gopal, mostreranno la loro destrezza innata nella scalata.
Tenzin continuerà a rimpinzarci di prelibatezze indonepalesi, tra una risata ed un’altra.
Mimmo farà una gita in vetta ad un’altra cima inviolata, lungo un canalone detritico.
Io, dimentico di ogni buon proposito, cercherò con il binocolo altre pareti da scalare alla prossima spedizione.

By Roberto Iannilli

24 novembre 2004

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