Rurec 2005

Nera, alta, liscia, verticale, a volte frammista a vegetazione, sempre difficile e repulsiva.
Cerro Pumauagangan bella non lo sei, ma l’impressionante parete rocciosa che offri alla valle incute timore.
Quattro anni prima con Luciano l’impressione fu di sconforto, ma non potevamo tornare dopo quel lungo viaggio. Fu dura allora superare i 1200 metri di parete di Punta Numa. Oggi so bene cosa mi aspetta e come affrontarlo, ma la sensazione di inadeguatezza resta: mi sento piccolo sotto questo muro eterno e tenebroso.

A causa degli inconvenienti patiti nel viaggio, l’attrezzatura in parte persa negli scali, l’entusiasmo si è affievolito, la concentrazione allentata. Cerchiamo di prendere il ritmo del campo e studiare quei muri insidiosi.
Pietro sta male. Accompagnato da Ginz, scende per farsi visitare all’ ospedale di Huaratz. Giorni di tosse cattiva e solo ora, che non si regge in piedi, ha deciso di cercare aiuto.

“Che facciamo Kenzo? Siamo venuti per scalare o girare i pollici?”
E allora via sulle liscissime placche all’ imbocco della valle. Lì il possente Pumauagangan degrada adagio a montarozzo erboso, conservando però sempre il suo lato roccioso, arcigno e a picco sulla valle.
I campesinos, saliti in valle per controllare il bestiame, ci osservano incuriositi: “Ola, gringo!”.
Già, per voi siamo tutti americani, “gringo” spendaccioni, stolti e strampalati.
Mi sento colpito nel mio orgoglio antiglobale, ma come dargli torto, il mio mondo è talmente lontano dal loro, quello che faccio è per loro inconcepibile, buffo.

I nostri amici tornano dopo tre giorni, Pietro è ancora debole e non può partecipare alla scalata.
Ginz si unisce a me e Kenzo. Insieme usciamo in cresta, a 4350 metri, dopo una bella serie di tiri in placca, sempre in bilico, spesso lontanissimo dall’ ultimo chiodo.
Questa salita mi ha rincuorato

Il nostro obbiettivo ora è la cima a sinistra di punta Numa.
Nessuna salita nota, nessun nome, solo 1000 metri superbi segnati da fessure e tetti.
Impossibile da salire in giornata, dobbiamo portare con noi tutto l’occorrente per bivaccare. Io e Ginz, accompagnati da Kenzo, saliamo carichi come somari, verso l’ attacco della via.
L’arrampicata è impegnativa, ostacolata dal muschio, difficile mettere protezioni, senza contare il pesante saccone di viveri, acqua e attrezzature da trascinare verso l’alto.

Siamo in inverno, versante nord-ovest, le giornate sono corte, appena il sole passa dietro le strette quinte della quebrada cala un freddo intenso, che non permette di scalare e allunga i tempi dell’ arrampicata.
Dopo due giorni arriviamo ad un piccolo terrazzino a picco sul vuoto e Ginz, che coraggiosamente si è proposto per questa scalata, ma è alla sua prima esperienza di questo tipo, non se la sente di dormire sul baratro.
Sassi, muschio, e con pazienza costruiamo un piccolo spiazzo più riparato e montiamo la nostra tendina, riusciamo anche ad accendere un fuocarello.
Kenzo e Pietro ci vegliano dal campo. Ci dividono poche centinaia di metri, ma per salirli c’è voluta tanta determinazione e un pò di autolesionismo.
Ma siamo alpinisti, razza strana ed incomprensibile, che fa cose insolite senza spiegarsi bene il motivo, giustificandole con la passione per la montagna.
Non ci basta osservarla, camminarci sopra per le più naturali vie di salita, dobbiamo scovare in essa ogni aspetto, ogni modo, in ogni condizione, travolti dal desiderio spasmodico di una simbiosi con questo mucchio di roccia insensibile, a cui noi alpinisti riusciamo a dare i significati più strambi ed insoliti.

La mattina si parte presto, fa freddo e la parte alta della via è umida. La roccia, sempre compattissima, è più pulita, ma le difficoltà non mollano mai.
Dopo una giornata di scalata usciamo in un grande anfiteatro di facili rocce che portano all’ attacco dell’ ultimo salto sotto la vetta. “Dobbiamo proprio salire? Perché non ci fermiamo qui?” … guardo Ginz stupefatto.
Non capisco che gli passa per il cervello, ma se non vuole salire vado da solo!
Saliamo questo benedetto ultimo tiro di corda ed eccoci in vetta.
Faccio qualche foto mentre Ginz è completamente assente, un autoscatto che ci immortala ranicchiati sulla monolitica vetta, senza nessuna gioia o soddisfazione apparente.
La vetta non è mai quello che ci si aspetta, è solo il punto più alto che raggiungi quel giorno, dal quale puoi solo scendere e pure in fretta, prima che cambi il tempo, prima che faccia buio, prima che sia tardi. Non è adesso che dobbiamo sentire qualcosa di speciale, sarà dopo, al ritorno, al ricordo.
Penso solo a tornare, la responsabilità della salita è tutta mia e Ginz è così contratto.
Mentre inizio ad attrezzare la prima doppia si siede su un sasso e si accende una sigaretta … Ma che fa? Si mette anche seduto? Con tutto quello che c’è da fare, possibile che non si rende conto! Sono così dannatamente preso che non capisco ciò che passa nella testa di un ragazzo che dai monotiri della falesia si è catapultato, con un coraggio fuori dal comune, su una bigwall.

“Robbè …!” e con un gesto che mi chiede di avvicinarmi. Lascio le mie cose e mi siedo accanto. Non c’è bisogno di parole, tutta la fatica e la tensione si scioglie in un abbraccio e ci commoviamo entrambi .
Solo adesso, dopo tanto tempo insieme, a parlare e decidere, a vivere l’ avventura, con questo abbraccio sento il perché siamo qui.
Questo sentirsi fratelli, così in alto, così lontano dalle nostre quotidiane certezze; sentirsi così vulnerabili e bisognosi l’uno dell’altro, ripaga di tutte le fatiche e da senso a quello che facciamo, più della vetta, della scalata.
Poco importa che, al ritorno scopriremo che la “nostra” vetta era già stata raggiunta un mese prima, questa impagabile emozione resterà per sempre impressa nel nostro ricordo.
Ognuno di noi prenderà la propria strada e forse ci rincontreremo tra vent’ anni, ma al primo sguardo, tutti e due rivivremo questo nostro momento speciale.

By Roberto Iannilli

29 novembre 2007

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