Sveglia alle quattro, ho dormito all’”Hotel SIGET superiore”,
che sarebbe la struttura dove gira la seggiovia e, come al solito,
non ho riposato bene… troppa ansia.
Ieri sera ho portato lo zaino, con tutto il materiale, all’attacco
della via. Un vero peso massimo: due corde, di cui una da 10,5
da settanta metri, un voluminoso mazzo di chiodi, martello,
microdadi, una serie completa di dadi e friend, venti rinvii,
qualche ghiera, grigri, discensore, due jumar, un litro e mezzo
di acqua, barrette per cibo, rurp, tre ganci, ganci fiffi, qualche
microchiodo artigianale, scarpette, tre staffe lunghe, tre daisy-chain,
parecchie fettucce e cordini, casco, imbragatuta, giacca impermeabile,
giacchetto in pile, felpa… e voglia di faticare.
Salgo leggero nel peso, ma decisamente pesante nell’umore. Ma
dove vado? Sono certo che è nelle mie possibilità?
E’ lunga e difficile ed io ho quella brutta sensazione mattutina:
mi sento inadatto, non altezza!
Puntualmente mi faccio la domanda del perché mi imbarco
in tali avventure, il mio intimo mi dice di lasciar perdere,
ma la ragione sa che poi non la penserò così,
vado anche se controvoglia.
Attacco la via e, come sempre, sono cauto; ai primi tiri sono
più imbranato del solito. Salgo impacciato i primi quattro
tiri.
Alla sosta sotto il primo tratto difficile, aperto da Marco
Sordini nel 1993, mi assale la voglia di buttare una corda e
calarmi, so quello che mi aspetta: tre tiri in costante forte
strapiombo, una fatica bestiale per salire e recuperare il materiale,
senza un compagno che ti aiuta, alleviando lo sforzo di sollevarti
sugli ancoraggi.
Marco ha fatto un notevole lavoro, ha risolto il problema degli
strapiombi sotto il “pancione di cavalcare”, lavorando duro
e nell’incomprensione dell’ambiente alpinistico di allora. Ora
Marco se ne andato per sempre, la sua via incompiuta non fa
ridere nessuno e nessuno ha tentato di salirla.
Concateno i primi due tiri, in modo da velocizzare la lenta
progressione in solitaria. Mi calo e risalgo schiodando, con
lo zaino in spalla. I chiodi mi servono per i tiri successivi
e voglio che, gli improbabili ripetitori, trovino quello che
ho trovato io.
Sul tiro successivo, sotto lo strapiombo, c’è un “bel
traverso” in discesa su ganci, ho studiato a tavolino la tecnica
per poter tornare alla sosta e recuperare lo zaino e quindi
risalire. Infatti ho con me una seconda corda, che lascio legata
alla sosta sotto, mi servirà per tornare, legato con
un prusik che mi aiuta a non tornare indietro.
Per evitare un poderoso pendolo nel vuoto, uso la stessa corda
al ritorno, facendola scorrere nella sosta, in modo da pendolare
con meno brutalità.
Sono all’altezza della cengia sotto “il pancione”, ho l’ultima
possibilità di discesa. Da qui posso calarmi per i primi
tiri di “Cavalcare la tigre”, oltre diventa difficile, se non
impossibile; se continuo sono costretto ad uscire.
L’orologio segna le 11.30, sono in tabella oraria: vado!
Attacco il tratto nuovo, aperto una settimana fa con Luciano,
il primo tiro è un traverso orizzontale su una vaga fessura
interrotta, che raggiunge un’altra fessura verticale e strapiombante,
che si perde in un oceano di placche.
Pianto chiodi, non sempre sicuri ed uso un gancio.
Faccio tutto il traverso abbastanza rapidamente, ma mi toccherà
farlo altre due volte, una per riprendere lo zaino ed un'altra
per ritornare alla sosta dove sono adesso e schiodare il tiro,
senza possibilità di aiutarmi con le jumar, che serviranno
solo per sicurezza.
Da qui iniziano i tiri più difficili, dove bisogna essere
leggeri e precisi, dove non è il caso di sbagliare.
La fessura, all’inizio è chiodabile, poi accetta friend,
quindi rurp ed infine scompare desolatamente, lasciando un vuoto
difficilmente colmabile, nell’assoluta compattezza della placca.
Ricordo bene l’impressione di sconforto in apertura: “Ed ora
che faccio?”, mi chiesi.
Ma non tutto quello che sembra impossibile lo è veramente
e, con i moderni mezzi dell’artificiale, si sale quasi ovunque.
Passando di gancio in gancio, studiando i buchetti per posizionarli,
tirando un rivetto di alluminio da 4 mm., raggiungo lo spit
.
Lo spit, mirabile certezza dell’ingegno umano, idolatrato totem
dello scalatore in libera, ora isola di sicurezza nel mezzo
del tiro, che purtroppo vedrò lentamente allontanarsi
dai mie piedi, in modo preoccupante e poco piacevole.
Cominciano a prendermi dei crampi agli avambracci, devo resistere.
Mi massaggio e continuo, potrò bere soltanto dopo essere
ridisceso allo zaino sotto.
Continuo la danza precaria dell’artificiale per due tiri.
La roccia accetta discretamente i ganci, ma non riesco a ritrovare
gli stessi buchetti che avevo usato in apertura, con un poco
di ansia tasto ogni tacca, alla ricerca di quello adatto, metto
il cliff e carico la staffa… macchè, con un “deng” scappa
via e faccio un voletto sul gancio sottostante, dove ero autoassicurato
con un fiffi all’imbrago.
Mi domando come sono passato l’altra volta. E’ ovvio che in
cordata si osa di più, ora non me la sento di sfidare
di nuovo la sorte.
Resto fermo per chissà quanto tempo, nella vana ricerca
di un buchetto buono per progredire di pochi centimetri.
Devo alzarmi di più sulla staffa, forse la ruga buona
è più in alto.
Facendo un misto di libera ed artificiale, salgo sulla staffa
utilizzando i minuscoli buchetti con le mani, cerco con una
mano, mentre con l’altra mi tengo, ma i miei stanchi avambracci
non hanno più molta resistenza e sono costretto a ravanare
all’indietro, per cercare di riposarmi appeso al fiffi. Dopo
un attimo riparto più deciso, non so se ce la farei ancora
a tornare indietro.
Punto ad un forellino invitante… ci metto un dito e sento che
è buono, tiro su la staffa, con il gancio già
pronto e la posiziono, subito la carico, so che se esce rischio
di cadere ed ho tanti metri di corda libera sotto di me, ma
nell’intimo so che terrà.
Infatti salgo sulla staffa e mi aggancio col fiffi.
E via così, cercando e trovando, inventando soluzioni
stravaganti, mentre il tempo sembra fermo, rallentato da questo
macchinoso modo di scalare le montagne che è l’artificiale.
Finalmente arrivo alla sosta dove esce il famoso traverso di
“Cavalcare”.
Quando ritorno su con lo zaino, mi rendo conto di quanto strapiomba,
sono appeso nel vuoto ed è così da diversi tiri,
non un terrazzino, una sporgenza, solo vuoto!
Sono stanchissimo, mi mancano ancora molti tiri ma il tratto
difficile è superato, ora devo stare attento a non fare
sciocchezze, la stanchezza e la deconcentrazione, sono pericolose.
Raggiungo una sosta della “via dei Poeti”, aggancio uno dei
chiodi e, distrattamente, senza un motivo vero, lo strattono…
esce dalla fessura come se fosse solo appoggiato, mi ritrovo
a roteare le braccia per non cadere di sotto: “Occhio Roberto,
c’è mancato poco!”
Con lentezza ed in modo penoso, sono in cresta alle 20.30,
dopo quattordici ore e mezza di scalata ininterrotta.
E’ fatta, ho salito la via in giornata. Ora che sono sulla
via di discesa so perché l’ho fatto, non per il piacere
in se stesso, ma per il piacere di averlo fatto, di sapere che
l’ho voluto e l’ho saputo fare e che non dovrò più
farlo…
Quando arrivo alla stazione alta della seggiovia, è quasi
mezzanotte, mentre mangio qualcosa e mi preparo per dormire,
una stana indefinibile serenità mi prende. Gratificato
dalla mia riuscita salita, tutte le incertezze e le paure di
questa mattina sono scomparse, resta la consapevolezza dei mie
mezzi, sempre arginata dai miei limiti.
Dentro il sacco a pelo, mentre aspetto il sonno, mi torna in
mente mia figlia: domani, al rientro a casa, puntualmente mi
farà la solita domanda: “Ti sei divertito, papà?”
Roberto Iannilli 19 luglio 2004
Marco Sordini era una forte alpinista di Perugia, all’inizio
degli anni novanta ha aperto tre bellissime vie al Gran Sasso,
tutte sulla parete est del Corno Piccolo ed ha lasciato in eredità,
questa incompiuta di eccellenza.
Il 19 giugno, con Luciano Mastracci, abbiamo ripetuto la sua
incompiuta, aggiungendo un attacco diretto di 130 metri. Speravamo
di salire anche la parte mancante, ma l’ora tarda ci ha fatto
desistere.
Siamo tornati il 24 e, salita la parte bassa di una via accanto
(decisamente più facile), abbiamo aperto il resto della
via.
Ora occorreva salire la via nella sua completezza e ci sono
tornato da solo il 10 luglio.
La nuova via si chiama “L’EREDITA’ DI MARCO” ed è dedicata
a Marco Sordini.
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