Facendo il minimo rumore possibile, faccio colazione,
sono le cinque e un quarto e tutti dormono al rifugio Franchetti.
Esco ed è già chiaro, oggi resterà sereno
il tempo che occorre alla nube del Gran Sasso per avvolgere
tutto.
Mentre scendo il sentiero mi faccio la domanda che spesso
frulla in testa agli scalatori, prima della salita di una via
di un certo impegno:” Ma che cavolo faccio … non mi conviene
restare al rifugio e farmi una bella e tranquilla passeggiata?”
Quante volte mi farò questa domanda e mi risponderò
che vale la pena provare? Quando accadrà che mi dirò
che è ora di darmi una calmata? Quale è la molla
che mi spinge e carica ancora, ormai da molti anni, a cercare
nell’arrampicarmi su rocce, sempre più difficili, non
so cosa e non so perché? Domande senza risposta, l’alpinismo
è forse una domanda senza risposta …? Comunque vado,
un piccolo sforzo e supero questa abituale indecisione, oggi
forse più forte perché sono solo e da soli ci
vuole un po di più di tutto.
Il mio obiettivo è un pilastro della Est del Corno
Piccolo, dove già esiste un itinerario di Tiziano Cantalamessa
e che, anche per questo, è dedicato alla sua memoria.
Cercherò di aprire una via che sale sulla destra, dove
una serie di strapiombi poco invitanti, sono una “linea di salita”.
Non è importante che sia bella o brutta, difficile o
facile … è una linea della parete e, dato che l’ho intuita,
letta e progettata, oggi cercherò di realizzarla.
Arrivo alla base del pilastro e mi accorgo che la fessura sotto
il primo tetto è larga ed io ho portato solo friend medi,
per risparmiare sul peso … in qualche modo farò!
Ormai tutto è automatico, mi preparo e attacco il primo
tiro. Roccia buona e difficoltà contenute, attrezzo la
sosta, mi calo, recupero il materiale e lo zaino e risalgo con
le jumar.
L’impressine della dimensione fessura era corretta, è
larga ed io ho un solo friend che le si adatti. L’arrampicata
è artificiale, se fosse attrezzata è certamente
fattibile in libera, ma ora non è il momento di pensare
alla libera. Traverso sotto il tetto utilizzando il solo friend
adatto, alternato ad un paio di chiodi in buchetti. Con un passo
non banale sono in un buon punto per la sosta. Mi calo, anzi
traverso in discesa, per pulire il tiro. Mi rendo conto che
non sarà facile tornare alla sosta. Con una serie di
piccoli pendoli risalgo, sono già stanco al secondo tiro.
Cerco di recuperare la corda e questa si incastra in una scaglia
rovescia accanto alla sosta sotto. Devo tornare sui miei passi
e lo posso fare solo riattrezzando, almeno in parte, il tiro.
Con il friend mi aiuto a traversare, libero la corda e cerco
di tornare sotto la verticale della sosta superiore. Ora non
ho il tiro attrezzato, provo a procedere con il friend ma, dopo
pochi metri, inesorabilmente, parto per un bel pendolo. Prima
di risalire sistemo la corda, non vorrei che si impigliasse
ancora. Naturalmente, quando vado a recuperarla, si è
di nuovo incastrata … La mia determinazione comincia a vacillare.
Per l’ennesima volta scendo e risalgo … ormai conosco bene questo
tratto di parete..
Attacco il terzo tiro, uno strapiombo giallo e liscio. In
qualche modo riesco ad alzarmi in artificiale, ad occhio mi
sembra che ora posso procedere in arrampicata libera.
Mi sento chiamare, è Luca, Roberto e Piero. Vecchi
amici e compagni di cordata:” Ci vediamo in cima”. Loro saliranno
una via recente, sulla stessa parete.
Ritorno ai miei problemi e pianto un chiodo, dall’apparenza
poco rassicurante, in un buco. Tanto non mi servirà,
non ho intenzione di volare. Salgo ancora e mi rendo conto che
gli appigli, che sembravano buoni, si rivelano poco saldi, anzi
non sono appigli ma blocchi che aspettano un cretino che li
tiri giù. Visto che sono cretino ne tiro via uno bello
grosso e, già che ci sono, me lo sbatto in faccia. Volo
all’indietro a braccia aperte … Quante cose si pensano in quell’interminabile
frazione di tempo, sento come una rassegnazione all’inevitabile,
cado e mi preparo a farmi male … cado e cado. Poi, quasi inaspettatamente
la corda smette di scorrere e si blocca, sono appeso come un
salame e subito penso:”Il gri-gri tiene i voli”. Poi mi meraviglio
che il chiodo abbia tenuto. Sospeso nel vuoto cerco di risalire,
ma mi fermo subito, devo riprendere il controllo, mi accorgo
che le mie mani tremano. Tasto la faccia, il sangue esce dalla
ferita provocata dal blocco, ma sembra che si fermi tamponandolo
con la maglietta. Come un ragazzino mi sorprendo a pensare alla
“scena” che farò al rientro al rifugio.
Risalgo con un prusik ed il gri-gri, fino al chiodo. Si è
spostato, l’anello si è poggiato alla parte inferiore
del buco, ma ha tenuto. Solo per un attimo penso di scendere,
ma solo per un attimo. Cambio strategia e anziché salire,
traverso ancora in po sul bordo dello strapiombo. Mi trovo alla
base di una breve fessura, formata da un grosso blocco, lo tasto
e questo suona. Sono abituato alla roccia cattiva ma oggi, da
solo e dopo la caduta, mi sento meno sicuro, comunque non è
il caso di tornare in dietro, è meno rischioso salire.
Pianto un chiodo che allarga la fessura, metto una staffa e
non so cosa fare, un secondo chiodo allenterebbe quello sotto.
Dopo una breve riflessione amletica, tipica dell’arrampicata
artificiale, opto per un chiodo ad U, messo un po storto che
sia, più che piantato, incastrato. Così la fessura
non si dovrebbe allargare. Sembra che vada, con grande cautela
carico la staffa e salgo.
Attrezzo la sosta e sono sospeso nella nebbia, la nuvola del
Gran Sasso è arrivata da un pezzo, ma io ero troppo preso
con le mie tribolazioni. Scendo, pulisco il tiro e risalgo con
lo zaino.
Mi aspetta un bel diedro compatto, troppo compatto, quasi
liscio e verticale, niente di simile al tiro sotto. Dopo un
tratto di difficile arrampicata libera, sono costretto ad usare
ancora l’artificiale. Metto un friend e provo se tiene. Ancora
non ho imparato a spostare il viso quando provo un ancoraggio.
Me lo stampo sulla mascella e completo l’opera iniziata con
il tiro precedente. Blocco il sangue con la solita maglietta,
che ormai ha le maniche rosse (il mio colore preferito) e riprovo
con una misura di friend diversa.
Finalmente esco dal tratto duro della via, ora dovrebbe essere
meno difficile.---
Faccio due tiri di settanta metri su difficoltà classiche,
in solitaria si arrampica con una singola (anche di settanta
metri) e non si hanno problemi di scorrimento, la corda è
fissa.
Sono stanchissimo, ho le mani piene di piccole ferite, tutte
le martellate andate a vuoto e le conseguenti botte delle nocche
sulla roccia. Per evitare di salire, scendere e di nuovo salire
ogni tiro, decido di uscire slegato per la via “FIRST”, che
da qui è più facile, ma dovrò caricarmi
tutto sulle spalle.
Con attenzione e calma, salgo un’interminabile serie di placchette,
lo zaino con il materiale mi fa penare, ma sono in cresta prima
delle cinque del pomeriggio. Da solo e facendo il minimo rumore
possibile, anche questa è fatta.
Immerso nella nebbia, mi avvio sulla cresta Nord del Corno
Piccolo. All’uscita della via che stanno salendo Luca, Roberto
e Piero, gli faccio una voce, mi risponde Luca. Non li vedo,
avranno ancora tre tiri. Continuo da solo verso il rifugio.
Più stanco del solito rimugino sulle motivazioni che
mi portano a ciò, ma ormai tutto è passato e già
progetto la prossima salita … forse ancora da solo.
Il giorno dopo, a casa, apprendo che è morto Pietro
Valpreda. Ricordo bene quegli anni bui e l’orrendo complotto
ai nostri danni, che ha costellato la storia d’Italia di stragi
impunite. Pietro è stato perseguitato per le sue idee
e ha scontato colpe non sue e, ne lui ne noi, abbiamo avuto
giustizia. Chi doveva difenderci da ciò è stato
complice e mandante e, ancora oggi, perpetua il suo piano.
Dedico questa via a Pietro Valpreda.
Roberto Iannilli
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