andrò sul Baldo.

Il mio compagno decide per un turno di fermata, è tardi per pensare qualcosa, andrò sul Baldo.

...Giunto alla base del canale spengo la frontale, la ripongonello zaino e indosso i ramponi. In alto la cresta si distingue per la fioca luminescenza della neve, lo sfondo però è ancora scuro. Solo oltre il profilo del Carega si distingue una pennellata chiara, siespande nel cielo lenta come una macchia d'olio sull'acqua.

Intanto arrivo sotto al primo salto; l'arrampico ancora sulla destra dove si era passati la scorsa settimana, un po' di neve si è nel frattempo sciolta ed ha formato una colatina di vetrato. Lavorando di punte e incastrando la becca supero il passaggio. Il fondo del canale porta ancora neve inconsistente, devo tenermi sempre sulla costa laterale, dove le vecchie peste mi danno un miglior appoggio, anche se - a dir il vero - nulla è cambiato, la fatica sempre tanta e si suda in abbondanza.

Il sole viene a scovarmi che sono a metà canale; seguo attentamente la linea di luce che man mano scende fino alla base delle rocce, e poi ancora giù ad illuminare i piani di Malga Artilone, ivi indugiando prima di inebriare anche le valli sulle quali ristagna una densa foschia.
C'è silenzio, la cresta brilla.

Intanto arrivo alla stretta superiore; potrei evitarla spostandomi dove passa il sentiero estivo. Ma ci sono ancora le nostre impronte, e ne sono attratto.
Queste hanno creato una sorta di rigo ripidissimo dal fondo duro; lo rimonto attento, passo tra alcune roccette, mi aggrappo a qualche ramo barancioso e guadagno alcune decine di metri, il terreno si fa sempre più ripido.
Tutto è ancora bellissimo e immobile, e che caldo, ma - mentre penso questo - mi giungono delle folate gelide che mi ricordano d'essere in maniche corte. Indosso il pile e la giacca e salgo gli ultimi metri che mi accomodano sulla cima.
Un cupo mantello di foschia copre completamente il lago, sopra - però - riluce il Brenta. I profili dolomitici emergono anch'essi dalla grigia coltre.

M'incammino subito, che non è questa la meta di oggi, ma sta di là del Circo di Valdritta, la vedo distendersi incontro al lago e mi aspetta.

La neve scricchiola sotto le punte dei ramponi, scendo con attenzione l'affilatissimo crestino poggiando la vecchia traccia ormai lavorata dal sole e dal gelo.
Percorro la cresta della Cima Baziva fin appresso allo spigolo.
È bello da qui l'anfiteatro di Valdritta, grande arena bianca riversa al lago, assediata da spalti rocciosi incisi da canali che vi hanno scaricato qualche slavina, rigato anche da tracce di camosci che vi scorazzano.
La scorsa settimana si era evitata la salita dello spigoletto perché ancora intasato di neve, ora però è bello asciutto, invitante.
Lo risalgo coi ramponi ai piedi, la roccia è splendida e in poco tempo arrivo in cima.
Ma ancora non mi fermo, è laggiù, in fondo al costolone che da qui diparte, che il cerchio diverrebbe perfetto.

Scendo lungo il filo di neve dura, sgambetto tra qualche mugo affiorante e riprendo la cresta.
D'estate bisogna scartare tra i corridoi concessi dalle ramaglie, adesso invece - che la neve li ricopre - è una linea continua fino alla sella, che scorgo più in basso. La linea nevosa è sottile, però agevole, ogni tanto sprofondo; è certo un prezzo banale rispetto a ciò che so di trovare là in fondo.

Il desiderio di andare d'inverno su quel cimotto, mi ronza da parecchio tempo.
È da qualche anno ormai che vado a visitare quel cupolotto, lontano, scostato dalla linea conosciuta del Baldo.
Ogni volta che arrivavo sulla Valdritta ne ero attratto, sedotto da quella cresta che sulle carte era innominata.
La prima volta che la salii fu una gioia.
Non avevo scoperto nulla, solo toccato un'occasione da sempre lì, a portata di mano.
Anche allora ero solo.

Arrivo sopra un canaletto che affonda ripido; conosco il fondo, è fatto di zolle erbose che già solo umide infastidiscono. Ora è colmo di neve, molle per giunta, i ramponi non servono a nulla, ma li tengo comunque.
Traverso la testatina e mi abbranco ai mughi che fanno di là capolino, vado giù fino alla cintola in una farina umididiccia, non mollo i rami.
Finalmente, non senza apprensione, ne esco e raggiungo un canaletto; la neve qui è bella dura, bellissima. Lo risalgo fino al colmo, arrampico un secondo saltino libero della neve e giungo sull'ultima dorsale.

Sono si e no a trenta metri dall'agognata meta, ma un profondo intaglio me la tiene lontana.
So che il fondo è fatto di rocce rotte e terroso, ora sono coperte da molta neve, ed è un po' troppo ripido per i miei gusti.
Lo guardo a lungo, poi decido di rientrare, ma prima giro all'intorno lo sguardo. Vedo tutta la dorsale principale, la veste invernale la rende assolutamente unica, non scorgo nessuno.
Bello il lago, però..., però un bel pezzo è tagliato fuori dal cocuzzolo che ho davanti.
Aspetta, qui c'è un mugo che spunta dalla coltre.

Via allora, zaino in terra e fuori il cordino. Scavo intorno al ramo centrale e vi passo la corda, la butto di sotto..., e mi tornano i pensieri. Che sto facendo, ma ci devo proprio andare là, posso sempre ritornarci più avanti; sì, certo, ma questa veste, questo momento, non sarà più come ora.
Valuto ancora, provo la consistenza della neve: non terrebbe su nemmeno un paio di guanti.
Lascio lo zaino, strozzo un cordino sulla corda e lo passo nella picca, a sua volta ancorata alla mano. Scendo piano, curando di battere le peste che mi serviranno nel ritorno. Senza accorgermene sono giù, è stato quasi facile, erano le mie ansie che ingigantivano quel passo.
Ora corro, neve dura, qualche roccia e sono in cima.

Finalmente! Eccomi qui dopo tanto tempo trascorso a pensare a questo istante.
Sono felice di questa gita.
Anche la Cima del Telegrafo, laggiù, è deserta.
Su tutta la cresta del Baldo non c'è anima viva. C'è un discreto venticello che fastidia non poco.
Ripenso a tutti i passi mossi per arrivare qui, è stato emozionante, ma so di non avere in nessun momento azzardato un movimento. Firmo il libretto e mi volgo al ritorno.

La corda, lasciata a penzolare, mi facilita assai nella neve molle. Poi ripercorro esattamente la mia stessa scia, gustando a fondo questa cresta sulla quale - in tanti anni che vengo sul Baldo - non ho mai visto nessuno.
Le orme cedono, la neve tende a mollare. D'un tratto mi accorgo di un camoscio placidamente accovacciato nella neve.
Sta su di un pulpito che domina la Vallarga, distante non più d'una decina di metri e indifferente alla mia presenza.
Lo guardo a lungo, poi riprendo il cammino, nemmeno lo fotografo visto che il rullino l'ho da poco terminato. Risalgo sulla Cima Baziva.
E qui faccio un'ultima sosta, perché anche questa cima la merita.

Penso sia strano che questa tratta di dorsale non venga quasi mai percorsa d'inverno; il Telegrafo è la meta più ovvia, vuoi per il canalone d'accesso, vuoi per la vicinanza del rifugio, anche se chiuso.
Scendo lungo la dorsale della Cornetta, coperta da una coltre bella compatta.
Non posso non notare i profondi buchi presenti, e penso alla pena di chi - la scorsa settimana - se l'è fatta in salita.
Scendo giù veloce e in poco tempo arrivo alla strada.

Mi volto un attimo verso la cresta, non vedo la mia cimetta, sta nell'altro versante, sta ora anche nel mio cuore.

È tardi, getto tutto in auto e parto veloce; ciò che non ho rischiato sulla cresta lo rischio forse ora. Ma arrivo in tempo davanti al cancello; sono le 12.40. La bimba esce col suo solito sorriso e mi vede con ancora indosso i calzoni da montagna. "Non dirmi che sei andato ancora sul Baldo, vero?"...

giorax

22 febbraio 2003

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