Il senso «vero» dello sci di fondo

(Alcune riflessioni sul risalire valli e monti con gli sci di fondo!)

<Che ore sono ?> chiedo, stropicciando gli occhi e sbadigliando un pò...
<Sono le 3 e 30 e siamo arrivati!  Ti sei fatta una bella dormita, eh?!!..> sorride il mio amico, <Dovevi farmi compagnia, vero?  Meno male che ho messo un pò di musica, altrimenti mi addormentavo anch’io!>.
<Abbiamo impiegato 1 ora e 30 da casa> replico, guardando l’orologio <certo che, partendo alle 2 da Roma, non trovi proprio nessuno per le strade!> è il mio ovvio commento.   Era logico aspettarsi strade libere in un viaggio di notte tra un venerdì e un sabato di fine marzo, ma il sonno doveva avermi giocato un brutto scherzo: mi immaginavo di incontrare folle di ragazzi in auto alla ricerca di discoteche, invece avevamo attraversato Roma e percorso l’autostrada per L’Aquila in una solitudine quasi completa.
<Diamoci da fare e non perdiamo tempo> dice Silvano, parcheggiando l’auto sullo spiazzo ai bordi della statale n.80 nella Valle del Vomàno, sotto alcuni alberi nudi e irrigiditi dal freddo.
Indossiamo velocemente i duvets, i guanti e i passamontagna: non fa eccessivamente freddo, forse perchè non c’è un alito di vento, ma siamo sempre a qualche grado sotto zero.
Mille pezzetti di luna si riflettono nelle acque scure, appena increspate del lago della Provvidenza, che si allunga in una conca a circa 1060 mt. di quota.
<Non dimenticare la borraccia col thè caldo, più su ne avremo bisogno> mi ricorda Silvano.   Nella suddivisione dei pesi avevamo deciso di portare una borraccia d’acqua arricchita con sali minerali e una «termica» con il thè.  Quest’ultima, da 1 litro, era toccata a me.
<Stai tranquillo, ho preso tutto, anche questo «maledetto» zaino sempre pesante!> replico, ultimando la legatura delle ghette attorno ai polpacci: <sono pronto !>.   Alle 4 di mattina di un sabato sereno di marzo, con zaino e sci in spalla, attraversiamo a piedi lo sbarramento artificiale del lago, su una stretta stradina, fino all’altra sponda appoggiata ad un roccione strapiombante del contrafforte montuoso al di là della valle.
Mucchietti di neve sono addossati ai bordi della strada e rendono ancora più angusto il passaggio.
Oltre lo sbarramento, dopo un paio di curve, una carrareccia si inoltra nella valle ancora buia.  C’è neve ovunque e mi viene in mente la scena di due esploratori nordici che attraversano sperdute taighe subpolari in una condizione di visibilità molto ridotta: <...et les deux amis vont dans le noir vers le blanc...>.
Che strana esperienza è quella di una sciata notturna?!
Nostra intenzione, però, è di utilizzare gli sci per l’avvicinamento alla montagna che abbiamo scelto, solo come mezzi di trasporto; decisione che non esclude di assaporare il piacere della scivolata morbida sui pendii non segnati da altre tracce, ma l’obiettivo è quello di portarci più vicino alle pareti del versante nord-est, per poi effettuare la salita per uno dei suoi canali ghiacciati.
Non vogliamo correre rischi di slavine ed è questa la ragione della nostra escursione notturna; la montagna è ancora carica di neve e noi cerchiamo di essere all’attacco alle prime luci dell’alba, per salire il canale che abbiamo scrupolosamente studiato, alto circa 350 mt., con maggiore sicurezza. Faggio all'inizio della val Chiarino (40289 bytes)
  La luna piena, che splende in questa notte serena e senza nuvole, è talmente grande e luminosa che offusca un pò la presenza delle stelle che le fanno da corona e, allora, non accendiamo le lampade frontali, non ce n’è bisogno: riusciamo ad individuare distintamente i singoli cristalli di neve che brillano lungo il percorso come fossero migliaia di lucciole.   Dopo aver aggirato un primo costone, calziamo gli sci e incominciamo a salire lungo la carrareccia, divenuta per noi una provvidenziale pista di sci.
Nessun rumore interrompe questo profondo silenzio in cui ci stiamo immergendo.  Solo il nostro respiro e lo strisciare armonioso e ritmico della soletta dei nostri sci sulla neve riempiono il vuoto della valle, e il loro eco rimbalza tra le sue alte pareti: diventano suoni ingigantiti in questo mondo irreale.
Dove siamo?
Sembrava impossibile trovare ancora zone così isolate!  Ed è impressionante constatare come, così rapidamente, ci sentiamo distanti dal mondo «urbano»!
Qui non ci sono luci, case, folla; ci siamo solo noi e la natura selvaggia.
Molti animaletti del bosco e i gracchi, padroni del cielo, ancora dormono.
La prima parte della valle, che stiamo risalendo, è molto stretta.  Contrafforti scuri di alte montagne le fanno da parete.  La carrareccia, che utilizziamo come pista, ci sta portando, con alcune svolte, sotto un primo risalto, difeso da una fitta fascia di faggeta che, vista dal basso, ci sembra impenetrabile.
Superiamo il Fosso del Torraccio, incassato in una profonda forra, a quota di 1136 mt.; qui la strada, ricoperta di neve dura, è solcata da orme di ruote.  Esse hanno formato profondi canali che ci rendono faticoso il cammino, costringendoci a sciare ai bordi, dove gli sci riescono meglio a sostenerci e a farci procedere con maggior speditezza: qualcuno deve essere salito in auto recentemente, forse con un fuoristrada.
<Vedi, se salivamo in auto almeno fin qui, risparmiavamo un’ora> rifletto ad alta voce...
<E bravo, non siamo ambientalisti?  e allora diamo il buon esempio!!> ribadisce Silvano, scivolando tra i faggi del fitto bosco.
Alle nostre spalle, il lago, attraversato un’ora prima sulla passerella della diga, diventa sempre più piccolo.  Lo specchio d’acqua sta acquistando una luminosità insolita ed intensa che, insieme con la sua forma particolare, lo fa sembrare un grande occhio brillante che ci guarda dalla valle: forse ci vuole proteggere le spalle!
Fantastica risalita nel bosco!  Tra gli alberi, la neve diventa migliore man mano che saliamo, non è più ghiacciata ma è rimasta farinosa.  Le nostre tracce, durante la salita, formano innumerevoli «Z» sulla coltre nevosa.
Raggiungiamo i ruderi della Masseria Cappelli a 1262 mt. (un importante casale del passato, con tanto di fortificazioni) e, dopo le prese dell’acquedotto, la sommità del primo ripiano; qui la valle si allarga ed uno spicchio più ampio di cielo la illumina.  Risaliamo ancora prati e pascoli innevati, mentre il cielo stellato comincia ad assumere un colore blu intenso e i monti acquistano una fisionomia più decisa.  Attraversiamo il Piano del Castrato (1500 mt. circa) in leggera salita, e le sagome del Monte Corvo, a sinistra, e del Monte Jenca, a destra, emergono dal buio ed evidenziano i loro ripidi fianchi imbiancati.
<Ora dobbiamo superare il secondo pendìo, più ripido e ghiacciato, mettiamo le pelli> suggerisce Silvano, fermandosi sotto il dosso ricolmo di faggi che divide la valle in una ulteriore sezione. Vista del M.Gorzano durante la salita (33481 bytes)
  Puliamo e asciughiamo scrupolosamente la soletta degli sci con uno straccio, poi fissiamo le pelli di foca adesive (...sono pelli con peli sintetici, cosa credevate?!...) sotto gli sci.   Lasciati a destra i pochi ruderi della Masseria Vaccareccia, si prosegue per l’erta china ghiacciata con maggiore sicurezza e saliamo il pendìo con percorso non obbligato, anche lungo la linea di massima pendenza, penetrando nuovamente in un grande bosco di faggio.   Si susseguono i «zig-zag» tra gli alberi e si supera il nuovo zoccolo della valle.  Raggiungiamo così lo Stazzo di Solagne a mt.1697 e il suo casale, oggi diventato un rifugio, costruito sul bordo destro di un pianoro aperto che porta lo stesso nome.  Sono 2 ore e 30 che risaliamo con gli sci questa valle e, alle nostre spalle, essa ha già assunto la sua vera forma allungata con i risalti successivi ben visibili.
Facciamo una sosta di 10 minuti in questa zona e ci guardiamo attorno mentre buttiamo giù qualche alimento di facile assimilazione insieme con abbondanti sorsate di thè caldo. Verso la Conca delle Pozze (28455 bytes)
Dall’altra parte della valle principale del Vomàno, giù in basso, comincia a profilarsi la sagoma del frastagliato lago di Campotosto e le creste occidentali del Monte Gorzano, la più alta cima del gruppo dei Monti della Laga e, con i suoi 2458 mt., la più alta dei monti del Lazio.   Piano piano sta albeggiando, il colore del cielo è passato dal blu intenso al viola carico, poi ad un azzurro con venature aranciate che preannuncia l’imminente sorgere del sole.   Spronati dallo scorrere delle ore, riprendiamo la marcia dirigendoci verso destra, con direzione sud-ovest; lo Stazzo di Solagne infatti si trova quasi a ridosso di una biforcazione della parte alta della valle. La biforcazione di sinistra, quella più importante, conduce a due passi famosi: la Sella di M.Corvo (mt.2305) più a sinistra e la Sella Venacquaro (mt.2236) a destra.  Da questi valichi è possibile raggiungere il Monte Corvo (mt.2623) lungo la via normale della cresta Est, oppure scendere in Val Venacquaro, isolato altopiano sconosciuto a molti escursionisti, per poi dirigersi verso le parti più note del gruppo del Gran Sasso (Pizzo Intermesoli e Pizzo Cefalone) e della Val Maone.   La biforcazione di destra, meno frequentata e ancor più solitaria, verso cui ci dirigiamo, conduce in un bellissimo altopiano carsico a forma di cucchiaio, conosciuto col nome di Conca delle Pozze che, ad una quota media di 1950 mt., porta verso la Forchetta della Falasca (mt.2187): terzo valico per la Val Venacquaro, il più meridionale, proprio a ridosso del crestone nord della Cima delle Malecoste. All’interno della Conca delle Pozze (29284 bytes)
  Saliamo una ripida scarpata del vallone con molta circospezione, attraversando grandi massi ricoperti di neve senza più vedere alberi; abbiamo ormai superato la loro quota vegetativa e siamo, sempre di più, immersi in un bianco abbagliante.   Il cielo ampio ed azzurro sopra di noi, sta ora velandosi, e qualche nube biancastra fa la sua apparizione.   Improvvisamente il panorama si allarga su uno scenario da fiaba: da dove siamo ora, riusciamo a vedere tutta l’ampia conca glaciale di questa zona dell’alta valle.  Sullo sperone, che si alza dallo Stazzo di Solagne e che separa questo vallone da quello più occidentale a ridosso del M.Corvo, s’innalzano alcuni torrioni, il più alto dei quali ha una forma tondeggiante ed inclinata verso ovest, e sembra piegarsi verso di noi.
Di fronte a questa cresta, dall’altro lato del vallone, fa mostra di sè la verticale parete del Pizzo di Camarda, che qui fa sprofondare i propri versanti nord-est, e lancia le proprie creste a congiungersi con quelle della Cima Malecoste a sud-est e con quelle del Monte Jenca a nord-ovest. Il Pizzo di Camarda, parete N-E e i due canali (35785 bytes)
  La piegatura di tutte le montagne di questa parte dell’Appennino ha una regolarità impressionante. La disposizione delle catene è nord-ovest / sud-est e, mentre i versanti rivolti a sud-ovest sono dolcemente inclinati, quelli a nord-est (cioè che guardano l’Adriatico) sono verticali (o quasi) e presentano ripide pareti e canali.  La roccia di questi monti è costituita prevalentemente da solido calcare, ma, nella zona che oggi attraversiamo, essa non è solida e la sua friabilità rappresenta, per noi, un pericolo in più.   Il Pizzo di Camarda è la nostra meta: vogliamo raggiungere la cima alta 2332 mt., salendo uno dei molti canali ghiacciati che si aprono su questo versante, quasi tutti di altezza superiore ai 300 metri di dislivello.
Sul bordo iniziale della Conca delle Pozze, pieghiamo decisamente a destra (verso ovest) e ci avviciniamo alla zona dei canali più alti della montagna, poco prima della verticale della vetta. Il canale «Arlecchino» è uno dei più alti e famosi della zona e oggi lo troviamo carico di neve e con un grosso conoide ghiacciato alla base.
Il bianco mantello nevoso, che ricopre tutto il vallone, risplende così tanto al chiarore intenso del mattino, che siamo costretti a chiudere gli occhi, già protetti da occhiali scuri.
<Qui va bene, facciamo una piccola sosta, togliamo gli sci e cambiamo le scarpe!> stabilisce Silvano, dopo essere salito con gli sci ancora un pò più vicino al canale.
Togliamo prima uno sci e tastiamo il terreno con il solo scarpone per verificarne la tenuta; non è divertente sprofondare in metri di neve senza sci. Si abbandonano gli sci e si cambiano gli scarponi (31210 bytes)
  Confortati dalla durezza della neve, ci liberiamo degli sci e mettiamo gli zaini a terra.   Estraiamo le due borracce e beviamo abbondantemente, mangiamo un poco di frutta secca e un pezzo di cioccolato.   Dallo Stazzo di Solagne è passata 1 ora e, considerate le soste, sono ormai le ore 8 di mattina.   L’azzurro del cielo ha ormai lasciato il posto ad un colore grigio scuro, non vediamo più il sole e non ci rendiamo conto del passare del tempo.   Fa sempre freddo e non vogliamo fermarci troppo in questa posizione.
Estraiamo dagli zaini gli scarponi da misto e li calziamo al posto di quelli usati con gli sci di fondo; riponiamo questi ultimi in sacchetti di plastica che leghiamo sugli sci infilati, con le code, nella neve.
Dopo avere sistemato nuovamente le ghette, montiamo i ramponi a 12 punte sotto gli scarponi e, stretti i cinghietti di chiusura, controlliamo che tutto sia a posto facendo qualche passo tra i blocchi.
Ora ci sentiamo molto più sicuri e tranquilli di prima, con questi 12 arpioni affilati sotto i piedi, che sentiamo stridere mentre mordono la neve dura.
Estraiamo ancora dal capiente zaino il casco, l’imbracatura, la corda da roccia, la piccozza e ultimiamo la vestizione.
Sciogliamo la corda (di 10 mm di diametro, lunga 40 mt.) e annodiamo i due capi alle nostre imbracature; riponiamo le frontali che non ci sono servite, il cibo e le borracce negli zaini e siamo pronti.
<Finalmente è più leggero...> esclamo con un sorriso, alzando il mio zaino e mettendolo sulle spalle.
<Procediamo in silenzio, accorciamo la corda ai due capi e saliamo di conserva, saremo più veloci e la corda si impiglierà di meno in questo dedalo di blocchi...> raccomanda Silvano raccogliendo alcune spire di corda e bloccandole sulle spalle. Effettuata questa operazione e lasciata una lunghezza libera di corda di 10 metri, Silvano prende la testa della cordata: è il più esperto ed allenato dei due e quindi sono ben contento di fare da secondo.
La salita della base del canale è molto complicata, perchè il conoide che vedevamo dal basso non è altro che un’enorme slavina, caduta recentemente, che ci dà il suo sinistro benvenuto sul canale, bloccandone l'accesso con enormi blocchi ghiacciati disposti caoticamente, in un equilibrio instabile, lungo il pendìo.
<Hai capito perchè siamo venuti qui di notte?... Immagina una slavina come questa che ti viene addosso mentre risali il canale!... Qui basta un grado o due in più e si muove tutto!> conclude Silvano, ricordando la tragica fine che aveva fatto un gruppo di escursionisti, travolti da una slavina qualche anno prima, più o meno nella stessa zona della valle dove ci trovavamo.
Cominciamo a salire a «zig-zag», avvicinandoci piano piano all’asse centrale del canale, e vediamo, più vicine, le rosse pareti calcaree strapiombanti che formano i bordi del pendìo, anch'esse testimoni di recenti crolli di roccia.
In questa zona del canale, la superficie della neve non è bianca, ma il grigio scuro è il colore prevalente, e ciò è un chiaro segno di caduta continua di detriti in questa specie di colatoio, che non ci lascia tranquilli.
Con molta fatica riusciamo a superare grossi blocchi, aggirandone qualcuno o superandone altri direttamente grazie ai ramponi e alla piccozza.
Alcuni blocchi, alti circa 2 metri, ci sbarrano la strada e allora ci esibiamo in una empirica tecnica di «piolet-traction», piantando le punte anteriori dei ramponi sui blocchi, tenendo le gambe un pò divaricate per migliorare l’equilibrio, e piantando la punta della piccozza più in alto possibile.
Purtroppo ne abbiamo una sola a testa e siamo costretti ad appenderci a questa per sollevarci.
<Per superare bene questi blocchi di ghiaccio, ci vorrebbero due piccozze vere da «piolet-traction» leggere e tecniche e non questa vecchia «picca Cassin» da escursionismo..> borbotto ad alta voce, sbuffando <chi se l’aspettava di trovare una slavina del genere!, sono solo dei blocchi sparsi di neve dura e ghiaccio ma, visti qua dentro, sembrano seracchi!..> esclamo, mentre comincio a sudare per lo sforzo.
Siamo in effetti al centro della slavina e mi sembra di attraversare un campo agricolo con enormi e dure zolle appena smosse da un gigantesco trattore.
<Quest’anno è nevicato molto in queste zone> replica Silvano <ed è abbastanza normale incontrare slavine in questo periodo dell’anno, la stagione sta cambiando... togliamoci da qui!>.
Qualche volta, appena superato un blocco «dritto per dritto» sulla sua faccia a valle, siamo costretti a scendere quella del lato che guarda verso il canale, pur procedendo in salita.
E’ buffo constatare che si scende, salendo in un canale che ha ormai raggiunto la sua pendenza «standard» del 65%.
Silvano è più veloce di me ed è ormai a monte della slavina, nella parte più ripida ma più libera del canale, e sta finalmente ramponando, con grande ritmo, sul pendìo.
<Silvano, non correre così, non ce la faccio, rallenta un pò...> grido districandomi a fatica dagli ultimi blocchi della parte superiore della slavina.
<Zitto, saliamo in silenzio> risponde Silvano fermandosi un attimo e attendendomi al centro del canale.
Ogni ramponata ed ogni altro rumore, produce scricchiolii sordi e profondi.
Piccoli sassi e pezzi di ghiaccio rotolano in basso, verso di noi, sfruttando alcuni rivoli ghiacciati che solcano il letto del canale, diventato evidentemente un grosso collettore e colatoio di questa parte della montagna.
<Ho trovato qualcosa> dico, cercando di estrarre un oggetto di colore scuro che appare incastrato appena sotto la superficie ghiacciata.  Con qualche colpo di piccozza, estraggo dalla neve un vecchio cappuccio di lana di color blu-nero, con risvolto di color rosso e disegno geometrico.
<E’ un berretto!...> confermo, agitandolo in aria verso l'amico.
<Un berretto, in questo tritatutto?!..> esclama Silvano, un pò sorpreso...
<Che sia di qualcuno di quel gruppo di escursionisti, travolti dalla slavina?> domando sottovoce..
<No, mi sembra improbabile, sono passati già alcuni anni, anche se questo versante rivolto a Nord-Est è sempre ghiacciato e potrebbe averlo tenuto nascosto per tutto questo tempo!> replica Silvano. <Che facciamo?  Lo portiamo in cima!?> domando, piegandolo e mettendolo in una tasca del duvet. <OK, va bene, ripartiamo...> risponde il mio amico, rigirandosi verso il pendìo e riprendendo la marcia.
Ora il canale, fortemente incassato tra alte pareti, si presenta libero da ostacoli fino quasi alla sommità, e la nostra progressione verso l’alto è più veloce. Verso la parte alta del canale Arlecchino (28898 bytes)
  Ogni tanto ci giriamo per ammirare il panorama alle nostre spalle: molte cime di questa parte della valle sono già alla nostra altezza ed altre si trovano più in basso; tutta la conformazione di quest’area ci appare nella sua completezza geografica.   Un’altra ora se n’è andata nell’attraversamento della slavina, nella parte bassa del canale e ora cerchiamo di salire il più rapidamente possibile.
Con una mezz’ora di ampie ramponate, siamo ormai a ridosso della cresta sommitale e vediamo sopra di noi l’ultima barriera che ci blocca il cammino e che dobbiamo superare: è una cornice di neve dura che si protende verso di noi chiudendo tutto il canale con un tetto.
Fortunatamente quest’ultimo è abbastanza corto; sporge solo di circa un metro sopra il canale e ha uno spessore di meno di due metri. Sulla cornice della cresta (17647 bytes)
  La stagione primaverile si fa sentire, almeno in quota sulle parti più scoperte della montagna, e favorisce la riduzione drastica dei mucchi di neve soffiata che si sono accumulati durante il periodo invernale.   Arriviamo finalmente a ridosso di questa cornice e ci fermiamo un attimo per riprendere un respiro normale.  Poi, faccio sicura al compagno con la piccozza infilata nella neve per tutta la lunghezza del manico, e con la corda che scorre attraverso un nodo di sicurezza realizzato attorno alla testa della stessa piccozza.   Mentre anch’io sono in sicurezza sulla mia piccozza, Silvano sale sotto il piccolo tetto e, dopo essersi bilanciato bene con i piedi, comincia a dare tremende picconate sulla parete strapiombante di neve dura, producendo decine di scaglie che mi piombano addosso e scendono velocemente nell’imbuto sotto di noi.  Il mio compagno si riposa dopo 5 o 6 colpi, poi riprende il lavoro con un buon ritmo.
Un pò alla volta si inizia a notare la creazione di un foro nel tetto, che il mio compagno si appresta ad allargare.  Man mano che questo foro si allarga e si approfondisce, lui ci penetra e continua la progressione.  Questo gioco dura un’altra mezz’ora e finalmente vedo i frammenti di neve e ghiaccio cadere, verso di me, direttamente dalla sommità del tetto e poi lo vedo uscire completamente dal foro e, con un ultimo salto, raggiungere la parte solida della cresta.
Dopo pochi attimi di riposo, Silvano prepara un ancoraggio per sè e per me, e quindi, al suo segnale, tolgo i miei ancoraggi e posso salire anch’io verso la cresta.  Il passaggio attraverso il foro, ormai molto largo e sfondato, non presenta nessun problema, anzi, per me che sono legato dall’alto, diventa una esperienza divertente piantare i ramponi all'interno del foro e usare la piccozza «al lancio», per fare conficcare la sua punta più in alto. In pochi minuti sono anch’io sulla cresta e raggiungo il compagno; ci picchiamo reciprocamente le spalle con le mani, non solo in segno di amicizia ma anche per riscaldarci un pò. In vetta (22944 bytes)
  Sono le ore 10 e 15 ed affrontiamo, sotto un cielo plumbeo, la facile salita della cresta nord-ovest del monte. Dopo altri 25 minuti di cammino, raggiungiamo finalmente la piccola croce di vetta alla quota di 2332 mt.   Ci stringiamo le mani in un’atmosfera quasi irreale, mentre cade qualche fiocco di neve e scende la nebbia che non ci permette di godere, se non a tratti, il vasto panorama visibile da questa vetta.   La cresta delle Malecoste, che con grandi risalti sale in direzione dell'omonima cima, verso sud-est, ci sembra completamente impraticabile, così piena di neve e di cornici.   Scattiamo qualche foto e mangiamo qualcosa, cercando di fare presto perchè fredde folate di vento rendono molto penosa la sosta in vetta.  Prima di chiudere lo zaino ed apprestarci a scendere, tiro fuori dalla tasca il berretto di lana trovato nel canale e lo sistemo sotto alcuni sassi vicini alla croce di vetta.
<Se qualcuno voleva salire fin qui, adesso è arrivato in vetta, e qui resterà per tutto il tempo che il suo berretto riuscirà a contrastare le intemperie su questa cima!!> esclamo pensieroso. La cresta delle Malecoste (29498 bytes)
  Rimesso lo zaino sulle spalle, alle ore 11 circa iniziamo la discesa seguendo a ritroso la stessa cresta di salita.  Superiamo la zona di uscita del canale che abbiamo appena salito e proseguiamo in discesa lungo il facile dosso della cresta.  Dopo poche centinaia di metri sulla destra si apre un altro canale, molto più ampio del primo, senza alcun ostacolo per la sua discesa e con la cornice già caduta.   Questo canale, parallelo al primo, ha la stessa pendenza del 65%, è alto poco meno di 300 metri; ed è conosciuto col nome di «Pulcinella».   Iniziamo la sua discesa ancora legati, ma ad un quarto del percorso, ci sleghiamo perchè ci rendiamo conto che il pendìo, liscio e regolare, non presenta problemi di sorta.  Raccolta la corda e riposta nello zaino, riprendiamo la discesa più velocemente.  Fortunatamente il tempo sembra migliorare, non nevica più e squarci di cielo blu ci permettono di vedere la valle, agevolando la discesa. Discesa nel canale Pulcinella (40740 bytes)
  In 1 ora e 30 dalla vetta siamo di nuovo ai piedi della montagna e, tagliando a mezza costa verso destra la sua parete nord-est, raggiungiamo il punto dove avevamo lasciato i nostri sci con i sacchetti contenenti le scarpe da fondo.   E’ fatta!  Guardando in alto, il nostro canale è punteggiato da innumerevoli gradini che confluiscono verso il cielo oltre la cresta e la sua cornice.
Siamo felici per questa impresa compiuta e anche per il fatto che da questo punto in poi gli sci ci riporteranno velocemente a valle.
Diamo fondo alle scorte alimentari, poi procediamo di nuovo al cambio delle scarpe e alla sistemazione dell’equipaggiamento; anche se lo zaino diventa nuovamente pesante, ormai non è più importante e desidero ripartire al più presto con gli sci ai piedi. Ritorno alla base del primo canale (31852 bytes)
  Alle ore 13, ripartiamo con gli sci, senza le pelli di foca, ridiscendendo lungo lo stesso percorso di salita, senza alcun problema nell’individuazione del percorso perchè le nostre tracce, fatte precedentemente, sono molto evidenti e la visibilità si mantiene buona, anche se il tempo non è migliorato da quando abbiamo lasciato la cresta per la discesa nel secondo canale.   Divertente discesa della valle in sci, in particolare nei tratti di attraversamento delle faggete che ci obbliga ad usare un pò di tecnica (dove si può) e tanta ... raspa ... per frenare la corsa tra un albero e l’altro.   La discesa è molto rapida e sono necessarie solo poche soste per un breve riposo; alle ore 14 e 45 raggiungiamo il lago della Provvidenza, ci togliamo gli sci e di nuovo attraversiamo la diga per raggiungere l’auto.
Alle 15 circa, dopo 11 ore di escursione, ci abbracciamo e poi, velocemente, ci cambiamo gli indumenti bagnati dal sudore, all’interno dell’auto, per non rimanere congelati all’esterno.
<Puoi percorrere questa valle anche d’estate, ma così, con gli sci e la salita finale su una di queste cime, è un’altra cosa!... Sei d’accordo ?> dice Silvano, rilassato e felice.
<Certamente, e ho capito, una volta di più, a cosa servono gli sci> rispondo, mentre la mia faccia esprime contentezza e stanchezza insieme <sicuramente essi sono stati gli unici mezzi di locomozione per tante popolazioni che, per molte generazioni, sono vissute in luoghi simili a questo, prima che essi diventassero gli strumenti di uno sport popolare...> concludo.
In tutta la giornata non abbiamo visto nessuno, a parte qualche gracchio che ci aveva sorvolato, nella tarda mattinata, quando ormai eravamo in vetta.
Ora il bisogno primario è bere una birra, e quindi ci dirigiamo verso L’Aquila per poi rientrare in autostrada.
Nel fare l’inversione dell’auto e ritornare verso le città, mentre butto un’ultima occhiata all’imbocco della valle, oltre il lago, un pensiero malinconico mi attraversa vagamente la mente <ciao Valle, chissà se ti ritroverò ancora così integra e solitaria?!...>.
Sono arrivato alla fine di questo racconto e mi accorgo di non aver ancora svelato il nome della Valle nella quale abbiamo effettuato questa escursione con gli sci.
Essa è la più lunga e solitaria tra quelle presenti nel gruppo del Gran Sasso, e penetra da nord verso il cuore di monti famosi.
Mi sembra quasi superfluo riferire il suo nome, poichè il lettore dovrebbe averlo già intuito dalla descrizione fatta prima: in ogni caso non si sa se il nome derivi dal colore delle acque che l’attraversano o dalla quantità di luce che riesce a illuminarla, specialmente nella sua parte inferiore.
Chi ha l’avventura di andarci, lo faccia con il rispetto e l’amore che abbiamo avuto noi, per questo solitario angolo del mondo ancora naturale e selvaggio.
Sì!, questo vuol dire fare conoscenza con la Val Chiarino.

 Enea Fiorentini
 <Riflessioni dopo un’escursione in Val Chiarino (AQ) - e al Pizzo di Camarda >
 (Roma, 20/3/1985)

11 novembre 2004

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